La salita, da un altro punto di vista

Di Ilaria Ottonello.

Oggi sto mettendo in pratica quanto fatto durante il mio primo pellegrinaggio a metà
settembre per tirare le somme di questo ultimo anno. Durante la prima tappa ho sempre e solo guardato avanti: non volevo perdere l’obiettivo quindi avevo gli occhi puntati dritti davanti a me, sempre verso la curva o la strada che dovevo raggiungere.

Il viaggio

Durante la seconda, e la terza, ho incontrato i primi saliscendi e dal momento che non
mi posso definire una persona atletica al termine di una salita mi prendevo trenta
secondi a riprendere fiato. Arrivata ai piedi della successiva me ne prendevo altri
trenta per sbuffare un pochino prima di affrontarla e guardavo verso il basso nel
mentre che la percorrevo, concentrandomi sui piedi, per vedere dove li mettevo e non
inciampare. Le uniche due direzioni in cui ho sempre puntato gli occhi sono davanti a me e ai piedi. Alla fine di una brutta salita un sussurro è giunto alle mie orecchie: “Fermati trenta
secondi in più, per riprenderti, e prova a dare uno sguardo dietro di te”; mi sono
voltata verso quella che, vista da quella posizione, era una discesa bella ripida e, forse
per la prima volta, ad alta voce mi sono detta: “I miei complimenti” e dopo un pat-pat
sulla spalla mi sono avvicinata a quella successiva con un sorriso, guardando in alto.
Da quel momento mi sono sempre voltata alla fine di una salita per apprezzare anche
solo brevemente la riuscita di quel tipo di strada che non mi piace proprio per niente
(se si è in montagna :D)!

Il cambiamento

384 giorni fa ho cambiato lavoro e adesso è giunto il momento di guardare un po’
indietro. Come altri eventi della mia vita ha avuto inizio in un modo un po’ particolare:
un’occasione, arrivata a mo’ di fulmine, che ho colto senza esitare nonostante sapessi
che le differenze sarebbero state parecchie e anche belle impegnative.
Per menzionare le più ovvie al primo impatto:

  • Avrei iniziato a parlare di software e di scommesse invece che di stoffe e
    macchine da cucire.
  • Sarei entrata in un’azienda composta interamente da uomini, quando per sei
    anni ho lavorato solo con donne.
  • Avrei iniziato un lavoro da scrivania quando per sei anni mi sono mossa come
    una trottola.
  • Avrei preso contatti con molti nuovi colleghi, anche a distanza, quando per sei
    anni ho lavorato con otto anime, al massimo, condividendo tutti i giorni gli
    stessi spazi.
  • Avrei avuto un ruolo definito quando per gli ultimi quattro anni mi sono
    destreggiata nel cercare di trovare il mio posto in un ruolo che mi era stato dato
    perché “è l’ordine naturale delle cose”.

Ho pensato mi ci sarebbe voluto molto tempo, ma davvero tanto, prima di riuscire a
colmarle, e di strada ne ho ancora da fare eh, ma in verità posso affermare di averne
già viste avviarsi, evolversi e alcune anche realizzarsi realizzarsi nel giro di questo
primo anno: ho contribuito e seguito progetti in questo nuovo mondo che era
completamente nuovo, ho seguito l’onboarding dei nuovi assunti, ho visto nascere due
dipartimenti, di cui ne sono stata responsabile pro tempore, sono stata coinvolta in un
viaggio all’estero che mi ha dato l’opportunità di guardare da un’altra prospettiva
questo nuovo mondo, sia lavorativo che personale; e vedere, adesso che mi volto
indietro, che ne ho fatto parte e ne sono stata anche in parte protagonista mi fa
assaporare quella sana fiducia in me stessa senza dovermi per forza sentire una
macchina da guerra che arriva a fine giornata stanca per sentire un po’ di
soddisfazione.

Conclusioni

Questo è quello che ho portato a casa in questo primo anno: poter lavorare in
un’azienda in cui l’ascolto, la fiducia e il rispetto sono impiantati nel DNA, e
soprattutto condivisi tra tutti, per me è stata una ventata di aria fresca perché questi
sono quelli che chiamo ingredienti chiave e base anche nella semplice vita di tutti i
giorni. È stato un anno in salita, qualche sbuffo c’è stato vista la nuova avventura e non nego
che ce ne saranno altri nei prossimi anni, ma quello che posso dire è “Tanto meglio
che sia in salita!” perché so che così avrò ulteriori opportunità di vedere tante altre
facce di un mondo a me ancora misterioso, lavorativo e soprattutto personale, che è lì
solo da scoprire.

Engage Stories – digest 2

Eccoci arrivati alla seconda tranche di #EngageStories, la nostra rubrica di vita vissuta in azienda e sviluppo professionale:

Altri spunti interessanti qui:

La nostra battaglia più dura

Sono passati mesi dall’inizio della missione ristrutturazione aziendale e ormai si vede bene la fine dell’anno. Negli ultimi tempi abbiamo affrontato una crescita aziendale non indifferente, non solo dal punto di vista delle persone, ma anche dei ruoli, dei dipartimenti e della cultura necessaria alla crescita stessa.

Nonostante la considerazione non possa essere definitiva, visto che continueremo a crescere ancora anche per tutto il 2022, posso già affermare che questa quest (glossario da gamer) è stata, e probabilmente sarà, una delle più complesse affrontate nella mia vita professionale. C’è tutto dentro: organizzazione, approccio filosofico/culturale/etico/economico, analisi dei dati, misurazione delle metriche di team, tecnologia, e via discorrendo. Ma alla base, sempre e solo una cosa, le persone.

Mi ricordo con nostalgia quando il mio lavoro era pensare “chissà se i miei test sulle performance rispetteranno i risultati che mi aspetto in produzione” o “come posso scalare con il tal SQL server” o ancora “voglio sistemare quella stored procedure per ridurre il tempo di risposta”. Era comunque molto impegnativo, vero, e senza studio e ricerca costante gli obbiettivi non si raggiungevano. Però era piuttosto deterministico. Diciamo che con un relazionale in certi casi hai quel dipende che i fan delle regole scolpite non digeriscono, ma era ancora macchina, software e tecnologia in generale. Oggi il mio lavoro è cambiato, un po’ per necessità, ma anche, in parte, per piacere e per sfruttare meglio la mia forma mentis, tutto sommato orientata all’organizzazione e all’ottimizzazione.

Scrivo questo post per condividere alcune riflessioni su quanto sia importante muoversi bene in contesti di migrazione come quello che stiamo vivendo, contesti in cui anche l’influsso di cambiamenti radicali a livello sociale (vedi pandemia) ci pone di fronte a scenari del tutto nuovi, con sfide non previste e difficoltà mai avute.

In passato molti di noi bramavano la possibilità di lavorare in remoto, di avere trattamento e approccio smart, di essere più indipendenti da tempo per ragionare ad obbiettivi. Oggi, alcune di queste condizioni sono fisiologicamente diventate uno standard, per la maggior parte accettate come nuovo modello. Altre hanno toccato l’esagerazione, come il non vedersi più di persona nemmeno quando possibile/importante, il numero delle call conference, il fatto di avere tutto e subito, sempre online. E ora, il metaverso (concetto che io ricordo dagli anni 90 da un romanzo intitolato Snow Crash) e tutte le innovazioni che, come la storia ci insegna, vengono idolatrate e demonizzate da chi, rispettivamente, vede solo vantaggi o tragedie apocalittiche. Oggi, comunque, abbiamo la gara a quello che va di moda e i social sono la monoposto con cui parteciparvi.

Ma crescere e cambiare vanno ben oltre questo. Quando abbiamo dovuto agire per predisporre un nostro percorso, non dormivo la notte, per paura (che ho tutt’ora) di una implosione aziendale e/o di non essere all’altezza. Il primo problema è stato avere una deadline stretta, che ci ha dato un ritmo atipico per fare selezione del personale. Per fortuna, la possibilità di lavorare da remoto con pochi requisiti di presenza ci ha dato il quid per venirne fuori egregiamente, visto che il resto è già people-first fin da quando abbiamo avviato l’attività. Le persone aggiunte seguono tutte i nostri principi, e non potremmo scegliere diversamente, pena “non remare tutti nella stessa direzione”.

Ma il vero problema, che é quello per cui ho fatto più fatica e che tuttora mi tiene sotto battuta, è stata la scalabilità dei nostri processi in essere. Ah, come funzionavano bene quindici persone fa! Da qualche tempo, invece, ogni cosa aveva iniziato a rallentare, si avevano stalli continui, la consapevolezza trasversale calava sempre di più e le prime reazioni precipitose rischiavano di portare a figure gatekeeper. Forse è naturale arrivare a ciò nella mente di tutti noi, a prima vista. Ma per chi crede nei principi della cultura DevOps e osserva più a lungo la situazione, questa non può essere la soluzione.

Ed è qui che abbiamo deciso di cambiare seriamente. Nessuna reorg, nessuna variazione all’organigramma. La gerarchia è rimasta piuttosto piatta, e non ci siamo fatti sopraffare dalla voglia di adattare il software sulla base della struttura aziendale (Team Topologies e la legge di Conway). Al contrario, abbiamo aggredito i problemi uno ad uno, cambiando a volte il processo, altre volte le abitudini. Abbiamo incluso persone nuove, con tanta esperienza sia con lo strumento (Azure DevOps) sia con le migrazioni culturali in realtà ben più grandi della nostra, abbiamo destabilizzato, di certo, ma stiamo già percependo i risultati. Per non dimenticare che l’appoggio del mio socio Michael Denny è stato indispensabile. I principi condivisi dall’azienda partono, in fondo, da noi due.

È importante avere una cultura aziendale condivisa in termini DevOps, ancor prima di pensare a qualunque strumento o prodotto. E non basta il coraggio, non serve il controllo gerarchico, ma un vero team di persone affiatate e pronte all’adattamento

La prossima retrospettiva verrò certamente rimproverato per l’impeto e la spinta rivoluzionaria, insieme a chi ha fatto sì che questo accadesse (il collega e amico Michele Ferracin, che mi ha consigliato anche il libro di cui sopra). Non potrò dare torto a chi lo farà; i cambiamenti fatti, forse, potevano essere affrontati con meno foga. Il fatto è che il processo antecedente alle modifiche non sarebbe più stato sostenibile e il rischio sarebbe stato quello di incappare in scelte da punto di non ritorno. Ho trattenuto il fiato e, credetemi, rispetto al quantitativo di variazioni, sono stato praticamente trasparente.

E ora? Beh, abbiamo una kanban board ben fatta, che rispecchia perfettamente un processo semplice, meno stati, meno informazioni inutili, meno dispersione e più consapevolezza trasversale. Certo, dobbiamo pulire gli arretrati, ma il peggio é passato. Siamo anche pronti a ridurre il numero di strumenti, perché essi sono stati semplicemente un supporto per la nostra cultura, sempre molto forte.

Con questo post, in conclusione, volevo sottolineare quanto sia importante avere una cultura aziendale condivisa in termini DevOps, ancor prima di pensare a qualunque strumento o prodotto. Senza questa radicata visione, la nostra azienda non sarebbe mai riuscita a reggere la crescita fino ad ora, né tantomeno a cambiare radicalmente pur mantenendo senza implodere. E non si tratta di hard skill, ma di un duro e prolungato lavoro di persone che remano dalla stessa parte, da oggi ancora più in maniera coerente e sincronizzata. Non basta il coraggio, non serve il controllo gerarchico, ma un vero team di persone affiatate e pronte all’adattamento.